20 gennaio 2021
Solennità di S. Sebastiano Martire
Messa d’Inizio del ministero episcopale del Vescovo Pietro a Caserta
“Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10, 32).
Il Signore ci chiede di riconoscerlo, come lo riconobbe San Sebastiano. Riconoscerlo, cioè saperlo vedere, risorto e vivo; saper intravedere la sua presenza e accoglierlo nei fratelli, nella Chiesa, nella storia. Fu così per Sebastiano. Così dobbiamo volere che sia anche per noi.
Anche stasera Lui viene, e chiede a noi di riconoscerlo in questa Eucaristia. Questa sera però, a me e a voi, Chiesa di Caserta, chiede anche un’altra cosa: a voi, di riconoscerlo presente in me che vengo in mezzo a voi come vostro nuovo vescovo; e a me, di riconoscerlo presente in voi, popolo di Dio a me affidato.
Dal riconoscimento viene la riconoscenza. Fu riconoscente Sebastiano; perciò seppe andare anche incontro alla morte per il Suo Signore.
La riconoscenza nasce dalla consapevolezza che l’altro è un dono e che perciò gli va detto: grazie! Da stasera voglio dire anche io grazie al Signore per voi. Sì, voi siete un dono per me.
Perciò vi accolgo – e così lo fate voi con me, a scatola chiusa – consapevole che c’è una volontà di bene, per me e per voi, nella scelta di inviarmi a voi.
Perciò: “Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà”.
Lo dico io stasera; dillo anche tu Chiesa di Caserta. Diciamolo insieme: “Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà”. Nella scelta di Papa Francesco, di metterci insieme, di congiungere le nostre vite, riconosciamo una chiamata del Signore. Questa consapevolezza sarà per me e per voi fonte di pace.
Al Santo Padre in questo momento va, innanzitutto, il mio pensiero. A lui rinnovo l’assicurazione della mia costante preghiera, ma anche la mia piena comunione, nell’adesione al Suo Magistero. Vogliamo fare nostro il suo invito a realizzare una conversione missionaria perché “la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura” (EG 23). Vogliamo con lui realizzare il sogno di una Chiesa più evangelica, povera e per i poveri, amica dell’uomo sempre, sua compagna di strada, per rendere presente, nello spirito del Concilio, il Signore Gesù, il Samaritano.
Saluto anche i confratelli vescovi, venuti a sostenermi in questo momento di nuovo inizio a Caserta e li ringrazio per la preghiera che questa sera vorranno presentare al Signore per me.
Saluto, in modo particolare, l’arcivescovo eletto di Napoli, Mons. Battaglia che, come me, in questi giorni vive l’esperienza di un passaggio: traslochiamo insieme; e traslocare non è mai semplice per le tante relazioni costruite e le tante storie conosciute e condivise.
Con lui saluto anche il cardinale Crescenzio Sepe. Voleva essere qui questa sera, ma il covid ha bloccato pure lui: sta bene però e prega per noi.
Un saluto ai presbiteri, ai diaconi, ai seminaristi, ai religiosi e alle religiose, alle sorelle e fratelli laici, che sono presenti qui questa sera, ma ancor più a quelli che non hanno potuto accedere – a causa dei numeri limitati imposti dalle restrizioni anti-covid e dai lavori di restauro in corso in questa cattedrale – e ci seguono attraverso le tv e i social. Saluto in particolare gli anziani, i malati, i disabili, le persone sole, quanti sono stati colpiti dal covid-19. Per loro, ma anche per tutti quelli che li assistono – i loro cari, i medici, gli infermieri – offro, questa sera, la mia preghiera.
Tra quelli non presenti fisicamente, ma collegati a noi, desidero salutare in modo particolare quanti avrebbero voluto accompagnarmi e sono spiritualmente uniti a noi questa sera: ischitani e vitulatini, ma anche tanti della Chiesa di Capua. Ischia viene con me e così pure la mia amata Vitulazio.
Questa mattina ho fatto visita a mons. Nogaro, casertano di adozione, pastore di questa Chiesa per circa 19 anni e ora vescovo emerito. A lui la mia gratitudine per tutto il bene fatto a Caserta, ma anche la richiesta di accompagnarmi nel mio ministero con la sua preghiera.
Un saluto tutto speciale a Mons. Tommaso Caputo, Arcivescovo-Prelato di Pompei e, in questi mesi, Amministratore Apostolico di Caserta. Grazie, carissimo Tommaso, per l’accoglienza e la fraternità che mi hai offerto; grazie per il tuo sostegno davvero squisito, ma grazie pure per il servizio tanto prezioso reso in questa Chiesa nei mesi di sede vacante.
Dal vescovo Tommaso ricevo oggi il pastorale; ma con lui a consegnarmelo c’è innanzitutto il vescovo Giovanni, pastore di questa Chiesa per sei anni, morto per complicazioni da covid il 4 ottobre scorso.
Siamo ancora tutti tanto addolorati per la sua prematura dipartita: a volte capiamo l’importanza di certe persone nella nostra vita, soltanto quando non ci sono più. È il destino di tanti; e, soprattutto, dei padri e delle madri, e di coloro che esercitano un’autorità. Il bene fatto a questa Chiesa – e per 10 anni alla Chiesa di Ariano IrpinoLacedonia e, ancor prima, come prete nella Chiesa di Acerra – rimarrà indelebile nel cuore di Dio e di certo non smetterà di produrre frutti, ora che il seme è caduto nella terra.
Con lui ricordo anche mons. Farina e tutti gli altri vescovi che mi hanno preceduto. Certo della loro spirituale compagnia, li ricordo tutti nel Signore e per loro offro la Divina Eucaristia.
Arrivo a Caserta nel giorno di San Sebastiano, patrono, insieme a S. Anna, della Città. Quando mi è stato chiesto di fare l’ingresso in questo giorno un po’, nel mio cuore, ho sorriso. San Sebastiano mi ha sempre impressionato e attratto molto, e stando sull’Isola, tante volte, mi sono rivisto in quell’immagine e ho pensato che il ministero del vescovo è un po’ così, come il martirio di San Sebastiano. Le persecuzioni, d’altronde, fanno parte della vita di ogni cristiano e di chiunque sia chiamato a generare; e fanno parte, perciò, soprattutto della vita di ogni apostolo. Gesù oggi ce lo dice con chiarezza! Sì, fanno parte della vita di ogni vescovo, qualunque sia la diocesi che gli venga affidata: perché se è vero che esse differiscono l’una dall’altra, per altri versi sono un po’ anche tutte uguali.
E dunque vengo, nel giorno di San Sebastiano, sapendo che una cosa sola mi dovrà interessare: fare il bene. A ricordarmelo è l’apostolo Pietro, non senza un filo di sottile ironia: “È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene piuttosto che facendo il male” (1Pt 3, 17).
Un’altra cosa però sento di poter dire; e desidero testimoniarla a voi questa sera: il Signore mi è stato vicino. A Ischia ho avuto modo di sperimentarlo: quando c’era bonaccia, ma soprattutto nei momenti in cui le onde s’increspavano e la bufera s’inaspriva. Sono certo perciò che anche qui sperimenterò la Sua compagnia, la Sua presenza e la Sua pace. Fu, in fondo, la certezza di essere amato da Dio che infiammò San Sebastiano e che lo rese deciso nel partire per Roma, pur sapendo – ci dice oggi S. Ambrogio – che là più forte infuriava la persecuzione. Fu proprio quell’amore che fece di lui una persona sedotta dal Signore, pronta a dare ragione della speranza che era in lui (cfr. 1Pt 3, 15), fino al dono estremo della vita. Sì, quelle frecce parlano d’amore.
Sì, il Signore mi è stato vicino. E vicina ho sentito pure la presenza della Madre, la Regina degli Apostoli. A Lei, l’Addolorata presente qui sul presbiterio nell’icona tanto amata dal popolo casertano, mi consegno e mi affido.
Vengo a voi come vostro nuovo vescovo, e ci si attende, forse, nel giorno in cui inizia il mio ministero, che io dica il mio programma, che dia qualche orientamento.
Stasera, però, vorrei dirvi soltanto la Parola di Dio. Vorrei che ascoltassimo Lui, l’unico Maestro, e provassimo a mettere al centro della nostra vita, e di quella della nostra Chiesa, innanzitutto il Vangelo. Riapriamo il Vangelo, rimettiamolo al centro della nostra vita: è ciò che ci invitava a fare proprio qui, a Caserta, Papa Francesco nella visita pastorale del 26 luglio 2014.
Vorrei essere un vescovo che fa questo; un vescovo che lascia parlare il Signore, più che dire io parole; anzi vorrei essere un pastore che insieme a voi si mette in ascolto della Parola, per costruire con voi una Chiesa di discenti, che pende dalle labbra del Signore e desidera che sia Lui a parlare.
Riconosco la Parola come un dono. E anche questa sera così l’accolgo, per me e per voi. Cosa ci dice, questa sera, la Parola? Provo a sottolineare tre parole.
Ci dice innanzitutto che siamo amati da Dio! “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” (Sap 3, 1). “Alle tue mani affido la mia vita”: così abbiamo pregato con il Salmo 31, lo stesso salmo che, secondo la Passione di Luca, pregò Gesù sulla croce prima di morire: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (23, 46); le stesse parole che la Chiesa ci mette sulle labbra ogni sera a compieta. Sì, siamo nelle mani di Dio: la mia vita, la tua vita, come quella di Sebastiano, è nelle mani di Dio. Questa Parola, da sola, già è un Vangelo!
A vedere, tanti, morire, durante la pandemia, quasi scomparire in un istante – come il vescovo Giovanni, che dopo poche ore dalla morte era già tumulato nella Cripta di questa Cattedrale – quante domande, in questi mesi, ci sono passate per la mente: Signore, chi sono? Chi siamo? Dove andiamo? “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio” ci rassicura il Signore. Sì, siamo nelle mani di Dio! E più diventiamo piccoli, più ne facciamo esperienza. Meno proviamo a difenderci con le nostre mani e più sperimentiamo di essere nelle Sue mani.
In un tempo in cui non possiamo stringerci le mani, toccarci, abbracciarci, Dio ci dice: sei nelle mie mani! Ti porto nelle mie mani; “Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato” (Is 49, 14-16).
È ciò che, con altre parole, dice lo stesso Gesù agli Apostoli nel vangelo di oggi – e questa sera a noi – nell’anticipare loro che ci saranno persecuzioni.
“Due passeri non si vendono forse per un soldo? [..] Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!” (Mt 10, 29- 31). Voi valete più…! Se sei amato da Dio, tu vali. Cioè: tu sei un valore, tu sei una cosa buona, molto buona (cfr. Gn 1, 31)! “Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo” (Is 43, 4). Anche se hai sbagliato, anche se hai peccato, anche se hai fallito, tu vali!
Vorrei essere un vescovo che annuncia questo, che dica questo alla gente: tu sei nelle mani di Dio! Vorrei essere un vescovo che lo dica con i fatti, più che con le parole. Anzi, vorrei che questo annuncio lo desse tutta la nostra Chiesa, leggendo con la gente il Vangelo, ma anche scegliendo di stare sempre dalla parte di chi, per il mondo, non vale, di chi non conta, di chi è scartato e messo indietro, di chi è calpestato nella sua dignità, nel suo anelito di giustizia, nella sua voglia di riscatto: penso alle persone sole, agli anziani, a quanti fanno i conti con la terribile piaga della mancanza di un posto di lavoro, ma anche a chi ha sbagliato e la vita già l’ha messo al muro, a chi ha ceduto alla violenza o alla tentazione di un guadagno facile ed è entrato nel vortice della delinquenza; a chi è incappato nelle maglie delle dipendenze e ora si sta lasciando andare.
Vengo a Caserta per questo: per annunciare l’amore di Dio. Per dire che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3, 16)! Sono vescovo per questo; siamo preti per questo; cristiani per questo: per il Vangelo. La Chiesa esiste per questo: questa è la sua missione! Se non la realizza non ha motivo di esistere. Vengo perciò con il Vangelo e per il Vangelo.
La seconda Parola che vorrei sottolineare con voi è l’espressione incontrata nella II Lettura: “con dolcezza e rispetto” (1Pt 3, 15).
“Con dolcezza e rispetto…”: questi due termini che troviamo nella I Lettera di Pietro mi fanno pensare alle nostre relazioni e mi dicono quanto sia importante che costruiamo bei rapporti; mi dicono che i modi sono importanti, almeno quanto i contenuti.
Vorrei in realtà essere un vescovo non omertoso, che annuncia la verità, sempre, dentro e fuori la Chiesa; un vescovo mai connivente, che non scende a compromessi con le logiche del mondo e vuole parlare con semplicità e franchezza a tutti, ma sempre con dolcezza e rispetto, perché mai venga meno la carità, perché signora e regina di tutte le virtù è la carità. Sì, l’altro è terra santa, dinanzi al quale bisogna togliersi i calzari. Da questa consapevolezza – dalla certezza cioè che l’altro è un dono – mi sembra che si possa partire per edificare una Chiesa sinodale, capace di ascoltare sempre tutti e di imparare da ciascuno.
I due sostantivi, dolcezza e rispetto, mi piacciono perché sento che hanno a che fare con il lessico familiare. Vorrei adoperarmi per edificare una Chiesa che sia meno “palazzo”, come quelli del potere, luoghi a volte irraggiungibili, dove possono arrivare solo alcuni, ma anche meno “ufficio” – i nostri ambienti a volte mi paiono così, freddi e anonimi, quasi non-luoghi – dove si erogano servizi anche santi, ma dove non si respira il calore della casa, il clima di famiglia di cui sempre, tutti e dovunque, abbiamo bisogno. Sì. vorrei essere invece un vescovo che lavora perché la Chiesa sia casa, famiglia di famiglie.
Anche l’episcopio che da stasera abiterò – ma gli stessi ambienti della curia – vorrei che sapessero di casa: casa per i preti, ma non solo; casa per i poveri; casa per tutti. E vorrei che così fossero anche le nostre parrocchie: una casa dove si prega insieme e si condivide la vita e ci si aiuta a vicenda per superare paure e turbamenti; una casa dove adorare il Signore Cristo e, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, sperimentare la gioia di rispondere a chiunque domandi ragione della speranza (cfr. 1Pt 3, 14-15), e la gioia di uscire e di partire, come dalla casa di Emmaus, mossi dal fuoco dell’amore, per annunciare e condividere il Vangelo (cfr. Lc 24, 13-35).
Una Chiesa-casa saprà imparare dalle famiglie; e, prima di parlare loro, saprà mettersi in ascolto di esse; e poi accompagnarle, nonostante le ferite e le battute di arresto, a diventare – o meglio, a scoprire – ciò che già sono: chiese domestiche. Una Chiesa dunque che sappia stare nelle famiglie: per incontrare giovani, piccoli, malati, lavoratori, uomini e donne soli – che semmai la famiglia l’hanno persa – anziani, nonni come Sant’Anna, qui particolarmente venerata.
C’è infine un’ultima Parola che vorrei sottolineare. Dice Gesù agli Apostoli: “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo” (Mt 10, 28). Le parole di Gesù sono un chiaro invito a coltivare il timor di Dio, ad avere cioè a cuore la nostra salvezza, a dedicarci ad essa con timore e tremore (Fil 2, 12). Un invito a imparare a contare i nostri giorni, sapendo che ciò che Dio vuole è la nostra santificazione.
Un invito che mi rivolgono del resto anche i miei predecessori: mons. Farina e mons. D’Alise. La morte, prematura e improvvisa, di entrambi, la sento come un monito innanzitutto per me. Essi mi parlano e m’invitano a non sciupare il tempo. “Se oggi ascoltate la sua voce, non indurite il vostro cuore”. E mi dicono: convèrtiti e mettiti ad amare, perché alla sera della vita, tutti, su questo saremo giudicati: sull’Amore.
Un monito che troviamo – come promessa – anche nel brano della Sapienza: “In cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici” (3, 5). “Ricordati, ci sarà una ricompensa!”: pare siano state queste le ultime parole del Vescovo Giovanni al telefono a suo fratello Emilio, la sera prima di morire: la sua ultima Lettera Pastorale, il suo vero testamento, il suo ultimo discorso, pronunciato non da questa cattedra, ma da quella della terapia intensiva dell’Ospedale di Caserta. Sì, è così: per tutto c’è una ricompensa! Perciò lavoriamo sodo; lo dico innanzitutto a me; ma lo dico a tutti. Lo dico anche a voi presbiteri. Lavoriamo, perché ci attende una ricompensa grande; lavoriamo senza perdere tempo, nella certezza che la ricompensa inizia già qui e ora.
Lavoriamo, però, insieme, e non come navigatori solitari. Non è questo il tempo di solisti… adoperiamoci invece per cantare in coro. È ciò che fa Gesù: nel vedere le folle ne ha compassione, ma poi – dice il Vangelo – non fa da solo: al contrario coinvolge i discepoli nella preghiera; ne costituisce Dodici e, prima d’inviarli, parla loro. Le parole ora ascoltate sono appunto alcune di quelle.
È ciò che vorrei fare anche io con voi. Vorrei provare a sognare innanzitutto con voi, carissimi presbiteri, che formate con il vescovo un solo corpo, una sola cosa. Vorrei innanzitutto con voi adoperarmi per vivere la gioia di un sogno condiviso. L’ecumenismo incomincia da qui, da una comunione missionaria.
Sì, vorrei, con voi, provare a costruire e una Chiesa capace di sognare insieme, una Chiesa casa e scuola di comunione – come diceva San Giovanni Paolo II (NMI 43). Da soli corriamo il pericolo di gravidanze isteriche; “da soli – dice Papa Francesco – si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme” (FT 8).
Insieme: è questo il primo segno che dobbiamo dare; è questo il segno più importante che la gente si aspetta da noi: che lavoriamo insieme e, prima ancora, che ci vogliamo bene; insieme tra noi e con tutti gli altri: diaconi, religiosi, religiose, sorelle e fratelli laici; insieme per mettere al centro Lui e non noi.
Carissimi, il nome “Caserta” ha a che fare con la casa: casa hirta, piccola casa sul monte. In questo nome colgo la vocazione della nostra Chiesa: non una domus, e neppure una reggia, come quella che abbiamo qui a Caserta, ma una piccola casa, dove però si possa fare esperienza del Signore; casa sul monte, non perché difficile da raggiungere, ma perché Dio la chiama ad essere una luce, una luce in un territorio segnato dall’illegalità e dalla corruzione, dalla piaga della mancanza di lavoro e bisognoso di un’opera di ecologia che sia però integrale, che tocchi le persone e la creazione; una Chiesa chiamata ad essere “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1) e, perciò: casa della consolazione, casa dove si asciugano lacrime, casa di riconciliazione, casa dalle porte aperte per chi è forestiero, casa dei poveri e della condivisione; casa della Parola, del Pane e della fraternità. Casa come quella di Nazareth; casa come Maria, perché questa è la vocazione della Chiesa: essere come Maria.
A Maria, Regina della Città di Caserta, a San Michele Arcangelo, a Sant’Anna e San Sebastiano mi affido e vi affido e chiedo loro di pregare con noi, per me e per voi. Amen.