Lettera ai preti all’inizio della Settimana Santa 2020
Ischia, 5 aprile 2020
Carissimo fratello,
a conclusione di una Domenica delle Palme tanto strana, mentre scende la sera, ti scrivo. Ho sentito il bisogno di fermarmi a parlare un po’ con te mentre iniziamo una Settimana Santa mai provata prima e, perciò, realmente tutta da scoprire: una Settimana che, a causa della pandemia, vivremo a porte chiuse e senza la presenza della nostra gente. Anche il Triduo Pasquale, cuore e centro di tutto l’Anno liturgico, ci toccherà celebrarlo così: senza la partecipazione della comunità! Niente file al confessionale, niente file alla Comunione; niente chiese stipate per i tanti fedeli, come ancora ci è dato di vedere, almeno nei giorni santi!
Nelle giornate che seguiranno cercherò, di nuovo, come già nelle scorse settimane, di raggiungerti in qualche maniera. Intanto però permettimi di condividere con te qualche parola e consegnarti fraternamente qualche piccolo pensiero.
È un altro modo per esserti vicino e coltivare quella relazione tra vescovo e preti che si fonda nel sacramento che insieme abbiamo ricevuto, e senza la quale non è possibile esprimere veramente ciò che siamo. Anche perché quest’anno, come già ti ho comunicato, niente Messa crismale, almeno per adesso. Così, non potremo vivere ciò che a me pare uno dei momenti più alti della vita della Chiesa; sì, perché mai come in quella occasione, la Chiesa si presenta! Mai come nella Messa del Crisma la Chiesa si mostra: si manifesta come la Sposa e, insieme, la Madre del Signore che sta sotto la Croce. E dalla Croce accoglie la Vita, l’accoglie come un fiume che sgorga da una Fonte: il Costato di Cristo, crocifisso per amore. Dal Figlio la riversa sui figli che succhiano al suo seno, perché si espanda e arrivi a tutti, in ogni angolo, su ogni lembo, ad ogni periferia. Di quella Vita io e te siamo un po’ come canali: sporchi, vecchi e rotti, ma, nonostante tutto, canali che fanno arrivare la Vita: canali, perché partecipi di un’unzione; canali che portano Sangue e Acqua e che donano lo Spirito.
Che dono e che mistero essere preti! Un dono che ci è dato senza merito, come forse tu stesso, durante la Veglia Pasquale, ripeterai, dinanzi ai banchi in una chiesa completamente vuota, nel canto dell’Exsultet. Lo dico a me e a te: ne siamo consapevoli? Siamo coscienti di essere stati scelti senza merito per una missione così grande? Siamo convinti che solo per grazia siamo quello che siamo?
Stamattina, celebrando da solo in Cattedrale, pensavo a quanta gente avrebbe voluto stare là dov’ero io e partecipare all’Eucaristia, per vivere appieno, nel mistero, l’incontro con il Cristo e realmente mangiare la Carne del Signore. E avvertivo che il compito, meglio, la grazia mia e tua, di sempre e ora più di prima, è portare non solo Cristo alla gente ma anche, all’inverso, presentare la gente al Signore.
Forse perché in questi giorni mi è ritornata spesso alla mente la figura di Mosè; pensando a lui, mi dicevo: il prete chi è? È, innanzitutto, l’amico del Signore, quello che, ammesso alla Sua presenza, come diciamo nella II Preghiera eucaristica, parla con Lui; colui che tiene le braccia alzate fino a sera, che patteggia con Dio e finanche litiga, magari s’arrabbia, sapendo che la preghiera, quando è impregnata d’amore per il popolo, quando diventa preghiera d’intercessione, è sempre bene accetta, anzi – come spesso ci ripete il Papa – è una preghiera che commuove il cuore di Dio. E Dio, quando si commuove, fa miracoli. Dio fa miracoli quando ci vede sinceramente coinvolti nelle storie della nostra gente, quando ci vede capaci di compassione, veramente vicini, anzi dentro la vita di chi spera, soffre e muore, come in questo tempo.
Ed è ciò che proprio in questa ora ci è chiesto di essere e di fare; possiamo provare: non si tratta, forse, di compiere cose straordinarie ma piccoli gesti, piccoli ma concreti, che, però, aiutino la nostra gente a non disperare e a sperimentare che il Signore non volta la faccia al suo popolo, ma soffre al suo fianco e non smette di volergli bene.
La Messa celebrata a porte chiuse, nell’assenza fisica dei cristiani, mi fa fare più di una considerazione. Mi domando: cosa c’insegna quella privazione? Cosa possiamo imparare da quell’assenza? Intanto, speriamo che si esca presto da questa condizione; volendo, però, trarre profitto dal frangente, mi dico: forse al Popolo di Dio il digiuno dall’Eucaristia potrà ricordare quanto sia necessario tornare al Signore e come sia importante per la nostra vita ridare tempo a Lui, nutrirsi della Parola e godere della grazia dei Sacramenti, e vivere in maniera più viva l’appartenenza alla comunità cristiana. E a noi ministri? A noi, che forse sentiamo la mancanza della nostra gente, a noi sprona a ritrovare il desiderio di porci a servizio della comunione, e a riscoprire che la vita, del prete innanzitutto, ha senso soltanto se donata, se spesa per gli altri e con gli altri condivisa, sapendo che per essi il Signore ci ha chiamati e a loro Lui continua ad inviarci.
Sai, c’è un rischio che intravedo nella nostra vita: è quello dell’assuefazione. Quando a noi preti ci prende, c’impedisce di apprezzare la presenza del Signore e gustare la gioia che viene dal Risorto. Presi dal vortice dell’organizzazione, abituati a “maneggiare” i sacramenti, diventiamo detentori del mistero. Ripetitori di formule e di riti, perdiamo la grazia della santa meraviglia e non ci sorprende più che Dio si faccia Pane, e non ci accorgiamo più che Cristo viene e ci fa dono del Suo Spirito, nuovamente e veramente! Forse celebrare l’Eucarestia da soli, senza la gente, senza chi ci viene ad ascoltare, potrà aiutarci a riscoprire che c’è innanzitutto un Altro che viene: c’è il Signore! Lui non viene meno, mai! E Lui viene anche per noi e non solo per la gente! Lui, il vero protagonista delle nostre celebrazioni.
Carissimo, la sera del Giovedì Santo, quando sarà conclusa la celebrazione e presto -si farà molto presto senza la lavanda dei piedi, senza i bambini che si preparano alla prima comunione, senza la processione all’altare della reposizione, né l’adorazione con i gruppi pronti per la turnazione, senza altari da spogliare e croci da coprire e senza che qualcuno, arrivato all’ultimo momento, ti dica come sempre: “mi confessi, per favore?”, presto, anche per i preti meno sbrigativi – quando dunque tutto sarà finito, tu, almeno tu, rimani! Non tirarti la porta della chiesa alle spalle. Tu, almeno tu, se puoi, rimani. Rimani con Lui e parlagli; parlagli e digli “grazie”: grazie di essere cristiano e prete, e di stare lì in quel momento. Parlagli della tua gente, prega per loro e per chi soffre innocentemente e, fagli domande: le stesse che ti fanno i tuoi cristiani. Se vuoi, chiedigli perdono e, se ti andrà, piangi pure: non ti vedrà nessuno! E, se anche qualcuno ti vedesse, non te ne vergognare: non è male vedere un prete piangere. Anzi, può far bene: più di tanti discorsi di facciata, più di mille prediche di circostanza. Forse non te l’ho mai detto ma – sai – una tra le cose per me più belle dei vangeli è il non aver taciuto sul fatto che Gesù abbia pianto: su Gerusalemme, dinanzi all’amico Lazzaro, e, di certo – anche se non detto esplicitamente – nel Getsemani, la sera prima di morire, quando chiese inutilmente che qualcuno gli stesse accanto. In Gesù che piange scorgo la sovrumana bellezza di un Dio che m’incanta e mi attrae; scorgo non soltanto la manifestazione della sua umanità ma soprattutto la rivelazione della sua divinità che mi chiama a scoprire il Cielo sulla terra e, nell’umano, il divino.
Qualcuno ti domanderà: ma quest’anno sarà Pasqua? Sì, sarà Pasqua! Un’altra. Diversa. Ma sarà Pasqua! Più vera forse, più essenziale. Anche se a porte chiuse! Come avvenne quando «la sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”» (Gv20, 19).
Sì, Pace!
Santa Pasqua di Resurrezione.
Il tuo vescovo