Il divario tra progressi scientifici e stereotipi socio-culturali

 

A cura della dott.ssa Rossella Verde – Psicologa per il KAIRE

Per un periodo molto lungo l’omosessualità è stata considerata alla stregua di una malattia. Nel 1973 l’American Psychiatric Association (APA) ha rimosso l’omosessualità dalla lista di patologie mentali incluse nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), e ha introdotto la definizione dell’omosessualità come “variante non patologica del comportamento sessuale”, riconoscendo la stessa suscettibilità alle patologie sia in persone omosessuali che eterosessuali. Nel 1993 anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha accettato e condiviso la definizione non patologica dell’omosessualità.

L’APA, inoltre, si è posta il problema di verificare su quali basi teorico-metodologiche si fondassero le cosidette “Terapie riparative”, nate negli anni ’80 con l’obiettivo di riportare a una condizione di “normalità” la devianza patologica degli omosessuali attraverso il ricorso alla psicoterapia. L’APA ha verificato inoltre quali validità avessero gli studi svolti in tal senso e quali conseguenze a medio e lungo termine si potessero ipotizzare per chi si fosse sottoposto ai trattamenti correttivi.

E’ stato così fondato un gruppo di ricerca, capitanato dalla psicologa Judith Glassgold, che ha condotto una meta-analisi degli studi e delle ricerche sul tema effettuati negli ultimi cinquant’anni giungendo alla conclusione che non esistono evidenze scientifiche che l’orientamento sessuale possa essere modificato volontariamente. Inolte gli studi finora condotti non sono stati in grado di valutare l’impatto che tali terapie possono avere sugli individui e quindi non è possibile stabilire l’assenza di danni potenziali nel medio e lungo periodo.

Sulla base dei dati raccolti, nel 2000 l’APA, tramite la produzione di un documento ufficiale, disconosce qualsiasi genere di trattamento che parta dall’assunto che l’omosessualità sia un disturbo mentale, ribadendo inoltre che l’orientamento sessuale, che si tratti di omosessualità, eterosessualità o bisessualità, non è una scelta consapevole che può essere volontariamente modificata.

Oggi la comunità scientifica afferma che l’orientamento sessuale non dice nulla della salute mentale, della capacità di relazione, della struttura morale di un individuo, e la quasi totalità degli psicoterapeuti oggi riconosce una concezione non patologizzante dell’affettività e della sessualità gay, considerate come declinazioni altrettanto sane del desiderio amoroso. Dal punto di vista scientifico il modello patologico è stato sostituito dal modello affermativo: non esiste un orientamento sessuale normale e uno patologico, un’identità sessuale naturale e una innaturale. La persona omosessuale non ha il rischio di sviluppare patologie diverse da una persona eterosessuale: il percorso terapeutico con un omosessuale non deve essere impostato alla riabilitazione del suo orientamento sessuale, ma ad una integrazione maggiore della propria immagine di sé e del proprio orientamento sessuale come parte integrante del proprio sé.

Se da un punto di vista scientifico sono stati fatti passi in avanti, dal punto di vista socio-culturale non possiamo dire altrettanto: la tentazione di inserire l’omosessualità in una classificazione a metà tra la perversione e la malattia è ancora molto forte. I ripetuti episodi di omofobia che affollano le cronache ne sono una chiara dimostrazione.

Il termine omofobia compare nel 1972, nel libro di G. Weinberg “Society and the Healthy Homosexual”. Per dare un’idea di quanto la società abbia vessato e stigmatizzato le persone omosessuali, l’autore utilizza questo concetto, omofobia, definendolo come la “paura irrazionale, l’intolleranza e l’odio perpetrati nei confronti delle persone omosessuali, gay e lesbiche, dalle società “eterosessiste”, che si rifanno a uno schema ideologico che nega, denigra e stigmatizza ogni forma di comportamento, identità, relazione o comunità di persone non eterosessuali”.

Omofobi si nasce o si diventa? Non si nasce omofobi; lo si diventa attraverso l’educazione, i messaggi diretti e indiretti che ci vengono trasmessi. Gli  atteggiamenti  sociali  verso  il  sesso,  il  genere  e  l’omosessualità vengono generalmente appresi  acriticamente e interiorizzati  molto  presto,  nelle  prime fasi della vita,  prima che  un individuo  abbia  riconosciuto  il  proprio  orientamento  sessuale. Quando i gay e le lesbiche cominciano a diventare consapevoli della loro omosessualità, essi sperimentano verso loro stessi i medesimi atteggiamenti che hanno  interiorizzato, complicando di conseguenza il processo di accettazione di sé.

In una società fortemente ostile agli omosessuali, gay e lesbiche devono percorrere  un cammino molto difficile e problematico attraverso il quale riconoscere il loro  orientamento sessuale, sviluppare un’identità basata su di esso, svelare il proprio orientamento sessuale agli altri (coming-out). Soprattutto per i soggetti che si trovano ai primi stadi del processo di formazione dell’identità omosessuale, e in generale per chi non è capace di gestire efficacemente lo stigma associato all’identità gay o lesbica, la percezione di un ambiente familiare e sociale repressivo può portare a  interiorizzare pensieri e sentimenti negativi nei confronti dell’omosessualità, e ciò può esprimersi sul piano psicologico attraverso la vergogna e il senso di colpa, la bassa autostima e la scarsa accettazione di sé.

Nascondere  il  proprio  orientamento  sessuale  può  creare  una  scissione  dolorosa  tra identità pubblica e identità privata. La profonda sofferenza che ne deriva pone in evidenza l’esigenza di intervenire sul rafforzamento delle abilità di coping attive, sullo sviluppo di reti sociali, sul superamento del disagio attraverso l’accettazione della propria identità sessuale, piuttosto che sulla correzione dell’orientamento sessuale. Soltanto in questo modo poteremo stabilire una continuità tra progressi scientifici ed evoluzione socio-culturale.